martedì 27 agosto 2013

Et in Arcadia ego

Dobbiamo dire che - nelle nostre esplorazioni della letteratura classica accessibile al Guercino - non abbiamo trovato nulla che possa costituire un referente letterale adeguato al suo quadro, salvo un solo brano che si dimostra però altamente significativo. Non ci sembra quindi per nulla inverosimile che Guercino abbia potuto leggere le Storie di Erodoto - nella versione latina di Lorenzo Valla, data alle stampe in Venezia nel 1474, oppure nel volgarizzamento di Matteo Maria Boiardo, pubblicato sempre in Venezia nel 1539 - e imbattersi con la più viva curiosità nel passo seguente che narra un episodio - peraltro altamente inverosimile - occorso durante il lungo conflitto che oppose Spartani e Arcadi: 

"67. Così durante la prima guerra sempre con esito costantemente sfavorevole lottarono contro i Tegeati; invece al tempo di Creso e del regno a Sparta di Anassandrida e Aristone gli Spartani erano ormai riusciti vincitori nella guerra, e lo erano riusciti nel modo seguente: [2] poiché venivano sempre battuti in guerra dai Tegeati, mandarono messi a Delfi per chiedere quale degli dei propiziandosi sarebbero riusciti superiori ai tegeati nella guerra. E la Pizia profetò loro che lo sarebbero riusciti quando avessero ricondotto in patria le ossa di Oreste figlio di Agamennone. [3] Ma, poiché non furono capaci di rintracciare la tomba di Oreste, mandavano di nuovo al dio per chiedere il luogo in cui Oreste giaceva. Ai messi che le rivolgevano questa domanda così la Piziarisponde: [4] «C'è una Tegea d'Arcadia in luogo piano, ove due venti spirano sotto una forza possente e c'è colpo e contraccolpo, e danno su danno. Lì la terra datrice di vita tiene l'Agammennonide; tu portandolo via sarai vincitor di Tegea» [5] Quando gli Spartani ebbero udito ciò, benché da per tutto cercassero, pure non erano meno lontani dal trovarlo, finché Lica, uno degli Spartani detti «benemeriti», lo trovò. I «benemeriti» sono cinque cittadini, scelti ogni anno, sempre i più anziani, fra i cavalieri; questi nell'anno in cui sono tratti a sorte fra i cavalieri hanno il dovere di non stare mai in ozio, e vengono mandati chi qua chi là dallo stato spartano.

68 Lica dunque, uno di questi uomini, aiutato e dal caso e dalla sua avvedutezza la trovò a Tegea. Essendoci in quel tempo libertà di scambio con i Tegeati, capitato in una officina egli osservava la lavorazione del ferro, e stava tutto meravigliato a contemplare il lavoro. [2] Il fabbro, accortosi della sua meraviglia, gli disse interrompendo il lavoro: «Certo, o ospite spartano, se tu avessi visto ciò che io vidi molto ti saresti meravigliato, dal momento che tanto ammiri la lavorazione del ferro. [3] Ché io, volendo farmi in questo cortile un pozzo, scavando trovai un'urna di sette cubiti. Non credendo che fossero mai esistiti uomini più grandi di quelli di oggi la aprii e vidi il cadavere, che era della stessa lunghezza dell'urna. Dopo averlo misurato tornai a seppellirla». Questi dunque gli diceva ciò che aveva visto, e l'altro, avendo riflettuto su tali parole, congetturava che secondo l'Oracolo quello doveva essere Oreste, da questo arguendolo: [4] vedendo i due mantici del fabbro trovò che erano i venti, e l'incudine e il martello erano il colpo e il contraccolpo, e il ferro lavorato il danno aggiunto a danno, da questo a un dipresso desumendolo, che il ferro è stato inventato per la rovina degli uomini. [5] Fatte questo congetture se ne tornava a Sparta e riferiva ai lacedemoni ogni cosa. Ma essi lo bandirono, accusandolo di falso. Allora, tornato a Tegea e esposta al fabbro la sua disgrazia, tentava di prendere in affitto il cortile, mentre quello non voleva darlo. [6] Come poi col tempo l'ebbe persuaso, andò ad abitarvi e allora, scavata la tomba e raccolte le ossa, tornava con esse a Sparta e da quel momento, ogni volta che combatterono fra loro, gli Spartani riuscirono di gran lunga superiori in guerra."

Riteniamo che il Guercino - la cui sensibilità era assai più vicina della nostra a questo genere di virtuosismi - o, comunque, qualcuno per lui, abbia inteso immediatamente quel che d'altra parte notano anche i curatori delle attuali edizioni di Erodoto: che cioè il brano in questione non ha nulla a che vedere con la storia effettiva del conflitto tra Lacedemoni ed Arcadi, essendo null'altro che una "favola poetica", scientemente inseritavi dall'autore oppure - cosa secondo noi meno probabile - ereditata come già inserita da una fonte precedente. Infatti, a proposito della pretesa libetà di scambio con i Tegeati, Gianfranco Maddoli, curatore del volume Erodoto e Tucidide, scrive: "Il dato, in contrasto palese con la situazione di guerra, appare un'invenzione di Erodoto per giustificare il racconto aneddotico." A nostro modo di vedere questa leggenda erodotea non è null'altro che la narrazione - simbolica e, per la verità, assai trasparente - di un'iniziazione ad antichi misteri metallurgici, sul tipo di quelli dei Cabiri - ed è noto che Erodoto era iniziato ai misteri di Samotracia - come li presenta Mircea Eliade nel suo ormai classico Arti del metallo e alchimia:

"Si è sottolineato che, nella Grecia arcaica, alcuni gruppi di personaggi mitici - Telchini, Cabiri, Cureti, Dattili - costituiscono confraternite segrete, in relazione con i misteri oppure gilde di lavoratori di metalli. Secondo le diverse tradizioni i Telchini furono i primi a lavorare il ferro e il bronzo, i Dattili Idei scoprirono la fusione del ferro e i Cureti la lavorazione del bronzo; questi ultimi erano, inoltre, famosi per una loro danza particolare, che eseguivano facendo cozzare le armi. I Cabiri e i Cureti sono chiamati «signori delle fornaci», «potenti per mezzo del fuoco», e il loro culto si è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo orientale. I Dattili erano preti di Cibele, divinità delle montagne ma anche delle miniere e delle caverne, che avevano la propria sede all'interno delle montagne. [...] Disponiamo, quindi, di tracce mitologiche di una situazione arcaica in cui le confraternite dei fabbri assolvevano un ruolo preciso nei misteri e nelle iniziazioni."

E ancora:

"Pare dunque che esista, a livelli culturali differenti, ed è indice di grandissima antichità, un legame intimo tra l'arte del fabbro, le scienze occulte (sciamanismo, magia, guarigione, ecc.) e l'arte della canzone, della danza e della poesia. Queste tecniche solidali sembra, inoltre, che si siano trasmesse in un'atmosfera pregna di sacralità e di mistero, che comportava iniziazioni, rituali specifici, «segreti del mestiere»."

Infatti, tenuto conto di ciò, se rileggiamo il brano con un po' più di attenzione ci accorgiamo che - durante un'improbabile tregua commerciale stipulata nel pieno della guerra del Peloponneso - uno spartano di nome Lica si reca nella città arcade di Tegea, sulle tracce delle ossa di Oreste. Non si può fare a meno di notare che Líches (Lica) viene da léicho (lecco, lambisco), esattamente come líchnos (ghiotto; goloso; avido; bramoso; curioso). Lica - colui che è curioso, bramoso (di conoscenza) - è dunque il prototipo dell'iniziando.
Allo stesso modo Teghéa (Tegea) viene da stégo (copro; proteggo; custodisco; difendo; nascondo; tengo occulto, segreto; tengo lontano; respingo; resisto a) prestandosi così assai bene a costituire il luogo più logico in cui deve recarsi chi vuole essere iniziato. Che Guercino non sapesse di greco è assai poco rilevante, dato che i significati dei nomi greci costituiscono solo elementi accessori della nostra interpretazione. Aggiungiamo che comunque questi sono talmente trasparenti da risultare accessibili anche a chi non conosca tale lingua: "Lica" evoca giustamente - attraverso il latino "lingo" - l'italiano "leccare", mentre "Tegea" evoca "proteggere", attraverso il latino "tego". E, in ogni caso, abbiamo già detto che il brano erodoteo e la sua interpretazione avrebbero benissimo potuto essergli suggeriti. Così Lica si ferma davanti alla bottega di un fabbro intento a lavorare il ferro, già ammirando l'aspetto essoterico, esposto agli occhi di tutti, della sua attività. Notando ciò, il fabbro accenna a un'implicazione meno triviale della propria esperienza, che potrebbe meravigliarlo ancor più (il ritrovamento favoloso dell'urna funeraria nel cortile). Di ritorno a Tegea dopo lo sfortunato interludio spartano, Lica cerca di affittare il cortile (di essere iniziato) ma senza successo ("colei che respinge" è appunto uno dei significati del nome "Tegea"): conseguirà la propria meta solo dopo un certo numero di sforzi. Resta da vedere cosa ha a che fare un "segreto di mestiere" con le ossa di un eroe mitologico, e a questo proposito Eliade ci fa notare non solo che i complessi mitico-rituali legati all'attività metallurgica implicano "il sacrificio o l'autosacrificio di un dio" ma anche che: "Secondo altre tradizioni, anche un semidio o un Eroe civilizzatore, messaggero di Dio, può essere all'origine dei lavori minerari e metallurgici."

Questa "favola poetica", così trasparente persino ai nostri occhi, doveva esserlo molto di più a quelli di un uomo del seicento, epoca in cui magia, astrologia e alchimia erano una componente fissa e abbondante della dieta culturale. Lo stesso Newton, ancora nel 1728, scriveva: "Le antichità Greche sono piene di finzioni Poetiche, perché i Greci non scrissero nulla in Prosa, prima della Conquista dell'Asia da parte di Ciro, re di Persia."

Come è noto il '400, il '500 e la prima metà del '600 sono i secoli in cui in particolare la passione per l'alchimia si generalizza al punto da somigliare a un delirio di massa. Le pubblicazioni su questo argomento divengono incredibilmente numerose: Borelli stimava che esse ammontassero a più di quattromila titoli e tutti, scienziati, principi, monaci, preti e porporati, curiosi di cose naturali, ciarlatani e illusi si davano a questo genere di ricerche.
Alla corte dell'imperatore d'Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e d'Inghilterra, nei palazzi cardinalizi, si distillavano erbe, si preparavano oli e si trattavano metalli secondo metodi alchimistici, sia per fabbricare farmaci, sia per fare l'oro. E lo stesso accadeva in Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove Francesco I, o lo stesso Emanuele Filiberto, attendevano con le proprie mani, tra fornelli e alambicchi, alle operazioni alchimistiche. È verosimile pensare che gli artisti, di solito chiamati dai loro committenti a rappresentare lo spirito dell'epoca, potessero essere estranei a tale movimento? Vi è da notare poi che il fatto della preparazione dei colori poneva allora la pittura in adiacenza con l'arte spagirica. Così, se non ci siamo sbagliati, possiamo ora tornare a guardare il quadro con occhi nuovi per comprenderne il senso letterale, obbligatoria porta d'ingresso alla decifrazione di tutti gli altri: non vi vediamo più due "pastori" davanti a un teschio, bensì l'iniziando Lica -come si conviene vestito di bianco - che, in compagnia del fabbro suo iniziatore - a sua volta vestito del colore del fuoco - sosta pensoso in contemplazione del mistero metallurgico cifrato dalle ossa di Oreste. Il tutto, naturalmente, nell'Arcadia menzionata dall'iscrizione misteriosa, il cui senso cominciamo finalmente a comprendere. Abbiamo già messo in luce il dettaglio che questa - essendo loro invisibile - non è per i due personaggi bensì per lo spettatore cui, evidentemente, vuole comunicare qualcosa.
Sul "che cosa" le illazioni si sono sprecate: gli accademici - da Panofsky a Lévi-Strauss - suppongono che essa manchi del verbo e la completano con un "sum", assumendo che sia la morte stessa a pronunciarla. Ma, anche così, la frase continua ad essere sgrammaticata: il che deve pur venire spiegato, a meno di non assumere che Giovanni Francesco Barbieri - o chi per esso - non fosse nemmeno in grado di compitare un latino tanto elementare.
Per dar ragione della forzatura grammaticale, la prima idea che viene in mente è che risulti dal trattamento anagrammatico di un'altra frase che vi sarebbe nascosta: purtroppo, su questa via si sono gettati solo dilettanti appassionati di occultismo i quali - sulla base di un'ipotesi formulata per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln - credono che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia sopravvissuto alla crocefissione per morire poi di morte naturale e venir sepolto da qualche parte nel Sud della Francia. Come ci si poteva attendere, tale ipotesi è stata accolta dal pubblico profano con un entusiasmo direttamente proporzionale alla sua assurdità, dando luogo a una nutrita serie di volumi se possibile ancora più improbabili e scatenando nelle pacifiche campagne circostanti Rennes-le-Château una caccia al tesoro che - pur non avendo dato ovviamente alcun risultato - è ancor'oggi ben lontana dal cessare. Così la si è anagrammata come "I, TEGO ARCANA DEI" ("Vattene, custodisco i segreti di Dio"): naturalmente, che tale vaga allusione imprecatoria non riveli assolutamente nulla ma sia addirittura più enigmatica della frase da cui è ricavata - tanto da spingere a chiedersi quale sia l'utilità di nasconderla in un anagramma - non pone il minimo problema ai cercatori di tesori immaginari.
Tuttavia, vi è un'altra possibilità di decodifica - segnalataci dall'amico Vincenzo Franchini, ottimo latinista - che si rivela adeguata alla nostra ipotesi in modo davvero stupefacente:

ET IN ARCADIA EGO

è anche l'anagramma perfetto di

ARA IN TEGEA DICO

in cui l'ablativo "ara" è certamente da intendere come complemento di argomento, nel senso di "de ara", in cui il "de" - come avveniva quasi sempre in latino - è sottinteso. Il verbo "dico" non significa dunque "dedico" - se così fosse richiederebbe l'accusativo "aram" - bensì è da intendere nel senso di "narro, racconto". La frase "DICO (DE) ARA IN TEGEA" - tenuto conto del fatto che il termine "ara" designava comunemente anche il sepolcro - significa dunque esattamente: "NARRO DEL SEPOLCRO IN TEGEA", concordando alla perfezione con il brano di Erodoto che abbiamo supposto costituire il referente letterale del dipinto.
Anche i più scettici concorderanno sul fatto che le probabilità che un anagramma così letteralmente e semanticamente preciso sia casuale - e che dipenda esclusivamente dalla possibilità meccanica di permutazione delle lettere nella frase - sono praticamente nulle: perciò noi consideriamo questo come qualcosa di molto prossimo a una prova oggettiva del fatto che la nostra ipotesi corrisponda effettivamente all'intenzione del Guercino.

Franco Baldini

giovedì 22 agosto 2013

C'è un articolo sul Corriere Online di oggi: alcuni archeologi avrebbero ricostruito che il ferro utilizzato pr produrre i primi monili, non è di provenienza terrestre. Così parlano di ferro meteoritico, sottovalutando invece l'ipotesi che si tratti di ferro proveniente da altri pianeti e portato sulla Terra da civiltà extraterrestri. Siamo di fronte all'ennesimo indizio di un profondo legame delle civiltà antiche con lo spazio.
Di seguito l'articolo.

Veniva direttamente dallo spazio e non dalle miniere il ferro impiegato nei più antichi oggetti in ferro finora rinvenuti. La scoperta, realizzata da Thilo Rehren di Ucl Archeology Qatar (la sede nel Golfo dell'University College di Londra), è stata resa nota su Journal of Archeological Science, fa spostare indietro di 2 mila anni l'inizio della lavorazione del ferro.

METEORITE - Sono infatti di ferro meteoritico i piccoli tubetti di una collana dell'antico Egitto conservata nel Museo Ucl Petrie (il Museo egizio dell'University College), risalente al 3 mila a. C. Il professor Rehren spiega anche come vennero realizzati: «La forma dei tubetti è stata ottenuta battendo il ferro e facendolo rotolare, in numerosi cicli di battitura con il martello, e non con i sistemi impiegati per gli altri collari rinvenute nella stessa tomba, cioè incidendo o trapanando con oggetti di pietra».

I FABRI DEL IV MILLENNIO A. C. - Il ferro impiegato per i tubetti (nove) quindi è stato prima ridotto in nove sottili foglietti, poi arrotolato. I tubetti facevano parte di un collare, insieme a oro e altre pietre preziose, a conferma dell'altissimo valore attribuito al ferro. La ricerca mostra che nel IV millennio avanti Cristo i fabbri del tempo erano padroni delle tecniche metallurgiche ed erano in grado di lavorare il ferro meteoritico (una lega di ferro-nichel molto più dura e fragile del rame, il metallo più impiegato 5 mila anni fa), tecniche che saranno poi affinate nel corso dell'età del ferro, che prese il via molto dopo: nella metà del II millennio a. C.
PASSAGGIO TECNOLOGICO - Queste tecniche furono poi fondamentali per poter ricavare il ferro dalle miniere e lavorarlo, un passaggio tecnologico fondamentale che aprì la strada all'utilizzo del ferro al posto del rame e del bronzo. I tubetti, completamente corrosi, vennero ritrovati nel 1911 in tombe pre-dinastiche presso il villaggio di el-Gerzeh, nel Basso Egitto. Ora, grazie a un sofisticata metodologia ai raggi X, i ricercatori sono stati in grado di stabilire che si non si tratta di ferro ricavato dalla magnetite, un comune minerale di ferro. Dopo di che, un'indagine eseguita ai neutroni e ai raggi gamma, ha fatto emergere una struttura particolare e un'alta concentrazione in nichel, cobalto, fosforo e germanio (rarissimo nel ferro di origine terrestre), che invece è caratteristico del ferro di provenienza meteoritica.

mercoledì 21 agosto 2013

Fulcanelli e l'Apocalisse prossima ventura

Piccola città di frontiera dei paesi baschi, Hendaye raccoglie le proprie casette ai piedi dei primi contrafforti pireneici. È racchiusa tra il verde oceano, il lago Bidassoa, lucente e rapido, ed i monti erbosi. La prima impressione, a contatto di quel suolo aspro e rude, è abbastanza penosa, quasi ostile. Sul mare, all'orizzonte, la punta di Fontarabie, color ocra sotto la luce tagliente, sprofonda nelle acque glauche e abbaglianti del golfo e a stento riesce a rompere l'austerità naturale d'un luogo selvaggio. Tranne per il carattere spagnolo delle proprie case, il tipo e l'idioma dei suoi abitanti, l'attrazione tutta particolare d'una recente spiaggia, irta d'orgogliosi palazzi, Hendaye non possiede nulla che possa attirare l'attenzione del turista, dell'archeologo o dell'artista.
All'uscita della stazione, un sentiero di campagna costeggia la strada ferrata e conduce alla chiesa parrocchiale, posta nel centro della cittadina. Le mura nude, affiancate da una massiccia torre, quadrangolare e tronca, si elevano su di un sagrato rialzato di qualche gradino e bordato d'alberi dalla folta chioma. È un edificio volgare, pesante, rimaneggiato, non interessante. Però, vicino al transetto meridionale, si nasconde, sotto il verde fogliame del sagrato, una semplice croce in pietra, altrettanto semplice quanto strana.
Questa croce ornava, un tempo, il cimitero e solo nel 1842 fu messa vicino alla chiesa, nel posto che occupa ancor oggi. Almeno questo è quanto ci assicurò un vecchio basco, che, per lunghi anni, aveva svolto le funzioni di sacrestano. Quanto all'origine di questa croce, non se ne sa nulla e ci è stato impossibile raccogliere la benché minima informazione circa l'epoca della sua erezione. Tuttavia, basandoci sulla forma del basamento e su quella della colonna, pensiamo ch'essa non dovrebbe essere anteriore alla fine del XVII secolo o all'inizio del XVIII. Ma quale che sia la sua antichità, la croce di Hendaye, con la decorazione del suo basamento, dimostra di essere il monumento più singolare del primitivo millenarismo, la più rara traduzione simbolica del chiliasmo, che ci sia mai stato dato d'incontrare. Si sa che questa dottrina, prima accettata, poi combattuta da Origene, da san Dionigi di Alessandria e da san Gerolamo, benché la chiesa non l'abbia mai condannata, faceva parte delle tradizioni esoteriche dell'antica filosofia di Ermes.
L'ingenuità dei bassorilievi, la loro esecuzione maldestra ci fanno pensare che questi emblemi di pietra non sono opera d'un professionista dello scalpello e del bulino; ma, lasciando da parte l'estetica, dobbiamo riconoscere che l'oscuro artigiano che scolpi queste immagini possedeva una scienza profonda e delle reali conoscenze cosmografiche. Sul braccio trasversale della croce, — una croce greca, — si nota l'iscrizione comune, bizzarramente scolpita in rilievo e su due righe parallele, con le parole attaccate le une alle altre; eccole trascritte, rispettandone la disposizione:

OCRUXAVES

P E S U N I C A

Certo, è facile ricostruire la frase ed il significato ben noto: O crux ave spes unica. Tuttavia, se noi traducessimo da persone inesperte, non si riuscirebbe a comprendere che cosa si dovrebbe desiderare, dal basamento o dalla croce, ed una simile invocazione potrebbe sorprendere. In verità, dovremmo spingere la disinvoltura e l'ignoranza a tal punto da disprezzare le più elementari regole di grammatica; pes, nominativo maschile, vuole l'aggettivo unicus, che è dello stesso genere, e non il femminile unica.
Sembrerebbe dunque che la deformazione della parola spes, speranza, in pes, piede, per ablazione della consonante iniziale, sia l'involontario risultato d'una assoluta mancanza di pratica presso il nostro scalpellino. Ma l'inesperienza può veramente giustificare una simile stranezza? Noi non possiamo ammetterlo. Infatti, il paragone tra i motivi eseguiti dalla stessa mano e allo stesso modo dimostra l'evidente preoccupazione per una normale distribuzione e l'accuratezza per la loro disposizione ed il loro equilibrio. Perché l'iscrizione sarebbe stata eseguita con meno scrupoli? Un suo attento esame permette di stabilire che i caratteri sono precisi, se non eleganti, e che non si accavallano (tav. XLVII). Senza dubbio il nostro artigiano li scrisse prima con il gesso o il carbone, e questo schizzo deve necessariamente allontanare ogni idea d'un possibile errore sopravvenuto durante la lavorazione. Ma poiché esso esiste, bisogna, di conseguenza, che questo errore apparente sia, in realtà, voluto. La sola spiegazione che possiamo invocare è quella d'un segno messo a bella posta, nascosto sotto l'aspetto d'un'inspiegabile esecuzione sbagliata e destinato quindi a risvegliare la curiosità dell'osservatore. Diremo, dunque, che secondo noi l'autore scientemente e volontariamente dispose in quel modo l'epigrafe di questa opera che ci colpisce.
Lo studio del piedistallo ci aveva già illuminato, e sappiamo già in che modo, con l'aiuto di qualche chiave, era meglio leggere l'iscrizione del monumento; ma vogliamo mostrare ai ricercatori di quale aiuto possono essere, per risolvere i significati nascosti, il semplice buon senso, la logica ed il ragionamento.
La lettera S, che prende in prestito la forma sinuosa del serpente, corrisponde al khi (x) della lingua greca e ne assume anche il significato esoterico. È la traccia elicoidale del sole giunto allo zenit della sua traiettoria nello spazio, al tempo della catastrofe ciclica. È un'immagine teorica della bestia dell'Apocalisse, del drago che vomita, nei giorni del giudizio, il fuoco e lo zolfo sulla creazione macrocosmica. Grazie al valore simbolico della lettera S, messa in posizione errata a bella posta, comprendiamo che l'iscrizione dev'essere tradotta in linguaggio segreto, cioè nella lingua degli dei o quella degli uccelli e che si deve scoprire il significato per mezzo delle regole della Diplomazia. Alcuni autori ed in particolare Grasset d'Orcet, nell'analisi del Songe de Polyphile, pubblicata dalla Rivista Britannica, le hanno fornite abbastanza chiaramente tanto da dispensarci dal parlarne ancora dopo di loro. Dunque, leggeremo in francese, lingua dei diplomatici, il latino tale e quale come è scritto; poi, usando le vocali permutanti, otterremo l'assonanza delle nuove parole che compongono un'altra frase della quale ristabiliremo l'ortografìa e l'ordine dei vocaboli ed anche il senso letterale* (* Nel testo: Il est écrit que la vie se réfugie en un seul espace. N.d.T.): È scritto che la vita si rifugi in un sol luogo* (* Dal latino spatium, preso nel significato di luogo, posto, ubicazione, dategli da Tacito. Corrisponde al greco ….., radice ….., paese,  contrada, territorio.), apprendiamo cioè che esiste un paese nel quale la morte non toccherà gli uomini, quando sarà il terribile momento del duplice cataclisma. Tocca a noi cercare, poi, la posizione geografica di questa terra promessa, dalla quale gli eletti potranno assistere al ritorno dell'età d'oro. Perché gli eletti, figli di Elia, secondo le parole della Scrittura, saranno salvati. Perché la loro fede profonda, la loro instancabile perseveranza nella fatica avrà fatto meritare loro d'essere elevati al rango di discepoli del Cristo-Luce. Essi porteranno il suo segno e riceveranno da lui la missione di ricollegare all'umanità rigenerata la catena delle tradizioni dell'umanità scomparsa.
La faccia anteriore della croce, — quella che ricevette i tre terribili chiodi che fissarono al legno maledetto il corpo dolorante del Redentore, — è indicata dall'iscrizione INRI, incisa sul suo braccio trasversale. Questa iscrizione corrisponde all'immagine schematica del ciclo riportato sul basamento (tav. XLVIII). Quindi siamo in presenza di due croci simboliche, strumenti del medesimo supplizio: in alto, la croce divina, esempio del modo scelto per espiare, in basso la croce del globo, che indica il polo dell’emisfero boreale e che individua nel tempo l'epoca fatale di quest'espiazione. Dio Padre tiene in mano questo globo sormontato dal segno igneo, ed i quattro grandi secoli, — figurazioni storiche delle quattro età del mondo, — hanno i loro sovrani rappresentati con lo stesso attributo: Alessandro, Augusto, Carlomagno, Luigi XIV* (*I primi tre sono degli imperatori, il quarto è soltanto rè, il Rè-Sole, ed indica in tal modo il declino dell'astro ed il suo ultimo sprazzo di luce. È il crepuscolo che precede la lunga notte ciclica, piena d'orrore e di spavento, «l'abominazione della desolazione».). Questo è ciò che c'insegna l'epigrafe INRI, esotericamente tradotta da Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, ma che prende in prestito alla croce il significato occulto: Igne Natura Renovatur Integra. Perché, presto, il nostro emisfero sarà provato col fuoco e nel fuoco. Ed allo stesso modo con cui, per mezzo del fuoco, si separano i metalli impuri dall'oro, cosi, dice la Scrittura, i buoni saranno separati dai cattivi nel gran giorno del Giudizio. Su ognuna delle quattro facce del piedistallo, si nota un simbolo differente. Su di una è scolpita l'immagine del sole, su di un'altra quella della luna; sulla terza, c'è una grande stella e sull'ultima una figura geometrica che, come abbiamo appena detto, è lo schema adottato dagli iniziati per indicare il ciclo solare. Si tratta d'una semplice circonferenza divisa in quattro settori da due diametri, che s'intersecano ad angolo retto. I settori portano scolpita un'A che li caratterizza, cosi, come le quattro âges* (*Età. N.d.T.) del mondo; essi formano quindi un geroglifico completo dell'universo, formato dai segni convenzionali del cielo e della terra, delle cose spirituali e delle cose terrene, del macrocosmo e del microcosmo, e nel quale si ritrovano riuniti gli emblemi maggiori della redenzione (croce) e del mondo (circonferenza).
Nel medioevo, dunque, si esprimeva la rotazione continua di queste quattro fasi del grande periodo ciclico, per mezzo d'un cerchio diviso da due diametri perpendicolari; ciascuna fase, generalmente, era rappresentata dai quattro evangelisti o dalla loro lettera simbolica che era l’alfa greca, e, più spesso, dai quattro animali evangelici che attorniavano il Cristo, raffigurazione umana e vivente della croce. Quest'ultima composizione tradizionale si trova assai di frequente nei timpani dei portali romanici. Gesù è raffigurato seduto, con la mano sinistra appoggiata ad un libro, la destra alzata nel gesto della benedizione, e separato dai quattro animali che gli fanno corona dall'ellisse chiamata Mandorla mistica. Questi gruppi scultorei, generalmente separati dagli altri da ghirlande di nuvole, sono composti con le figure messe sempre nello stesso ordine, come si può notare nelle cattedrali di Chartres (portale del rè) e di Le Mans (portico occidentale), nella chiesa dei Templari di Luz (Hautes-Pyrénées), in quella di Civray (Vienne), nel portale di Saint-Trophime ad Arles, ecc. (tav. XLIX).
Scrive san Giovanni : « Davanti al trono c'era anche un mare di vetro simile a cristallo; ed in mezzo al trono ed intorno al trono, c'erano quattro animali pieni di occhi sia davanti che di dietro. Il primo animale assomigliava ad un leone; il secondo assomigliava ad una mucca; il terzo aveva il viso come quello di un uomo, ed il quarto as somigliava ad un'aquila che vola* (* Apocalisse cap. IV, vv. 6 e 7.). » Questa relazione è simile a quella di Ezechiele: « Io vidi dunque... una grossa nuvola ed un fuoco che la circondava, e tutt'intorno uno splendore, in mezzo al quale c'era qualcosa di simile al metallo che esce dal fuoco; ed in mezzo a questo fuoco si vedevano riuniti quattro animali... E le loro facce rassomigliavano ad un viso di uomo; e tutt'e quattro, a destra, avevano il muso d'un leone; e tutt'e quattro, a sinistra, avevano il muso d'un bue; ed al di sopra tutt'e quattro avevano un muso d'aquila* (* Cap I, vv. 4 e, 5, 10 e 11.)»
Nella mitologia indù, i quattro settori uguali della circonferenza, formati dalla croce, servivano di base ad una concezione mistica assai singolare. L'intero ciclo dell'evoluzione umana è incarnato sotto l'aspetto d'una vacca, che simbolizza la virtù, ed i suoi quattro zoccoli stanno ognuno su uno dei quattro settori che raffigurano le età del mondo. Nella prima età, che corrisponde all'età dell'oro dei Greci e che è chiamata Credayougam o età dell'innocenza, la Virtù si mantiene stabilente sulla terra: la vacca si appoggia completamente con i suoi quattro piedi. Nel Tredayougam o seconda età, corrispondente all'età dell'argento, la vacca s'indebolisce e si tiene solo su tre zampe. Per tutta la durata del Touvabarayougam o terza età, corrispondente a quella del bronzo, essa si riduce a due piedi soltanto. Ed infine nella nostra età del ferro, la vacca ciclica, o l'umana Virtù, giunge al supremo grado di debolezza e di senilità: si sostiene a fatica, in equilibrio su di un solo piede. È la quarta ed ultima età, il Calyougam, età di miseria, di disgrazia e di rovina.
L'unico sigillo dell'età del ferro è quello della morte. Il suo geroglifico è lo scheletro provvisto degli attributi di Saturno: la clessidra vuota, che indica il tempo trascorso, e la falce, riproduzione del numero sette, che è il numero della trasformazione, della distruzione, dell'annientamento. Il Vangelo di quest'epoca nefasta è quello scritto sotto l'ispirazione di san Matteo. Matthaeus, in greco ……, deriva da ……, ……, che significa scienza. Questo vocabolo ha prodotto ….., ….., studio conoscenza, da ….. imparare, istruirsi. È il Vangelo secondo la Scienza, l'ultimo tra tutti, ma per noi il primo, perché c'insegna che, tranne un piccolo numero d'eletti, noi dobbiamo perire collettivamente. Per questa ragione l'angelo fu attribuito a san Matteo, perché la scienza, la sola capace di penetrare il mistero delle cose, quello degli esseri e del loro destino può dare all'uomo delle ali perché si elevi fino alla conoscenza delle più alte verità e giunga fino a Dio.

Fulcanelli

giovedì 15 agosto 2013

Un balbale per il dio serpentino

Un balbale è un tipo di composizione poetica in rima, spesso di lode, accompagnata da musica di sottofondo, tipica della tradizione sumera.  Venivano  cantate nelle cerimonie dedicate agli dei e nei festival regionali. Quello qui riportato è dedicato a Ningishzida, divinità considerata tra le ‘minori’ nel pantheon sumero (ingiustamente, ad avviso del traduttore da cui peschiamo la versione italiana riportata in calce). A meno che non si siano letti testi specifici o si sia addentri alla materia  infatti, è raro che chi si interessa alla mitologia sumera e babilonese abbia conosciuto questa divinità. Eppure risulterà evidente fin dai primi versi del testo che Ningishzida era un dio potentissimo, che doveva essere tenuto in grande considerazione dagli altri dei. 
Le poche informazioni riguardanti questo dio, giunteci da Kramer, Jacobsen, Bell e indirettamente da Halloran (che sostanzialmente appoggia la posizione di Jacobsen) sono estremamente caotiche. Se più o meno tutti concordano nel ritenere Ningishzida un dio ‘della fertilità’, la motivazione di questa attribuzione,  a mio avviso completamente errata, è diversa per ognuno di loro in quanto legata alle leggermente diverse traduzioni fatte del nome del dio.
Tutti infatti traslitterano in NIN.GISH.ZID.DA, ma mentre Bell traduce con ‘Signore che fa crescere gli alberi in modo corretto’, Halloran e Jacobsen traducono con ‘Signore del giusto albero / fedele attrezzo’. Jacobsen addirittura nota un presunto gioco di scambio di significati del GISH da ‘albero’ a ‘pene’ per rafforzare l’idea di dio della fertilità, ma ‘pene’ è GISH2 non GISH; inoltre siccome da vari miti Ningishzida   è associato al ‘mondo   di   sotto’ (Abzu   – erroneamente descritto come il regno dei morti o degli inferi), e il suo stemma son due serpenti intrecciati, il solito Jacobsen si spinge fino a supporre che “i serpenti sono le radici dell’ albero che compare nel nome del dio e che affondano sotto terra fino al mondo di sotto” (qui non sarebbe male lanciarsi in un approfondimento circa eventuali analogie con le leggende dei rettiliani, alle quali chi scrive non attribuisce molta credibilità, e a quelle di civiltà progredite che potrebbero aver trovato rifugio nelle cavità sotterranee) .
Personalmente, pur con la mia poca esperienza in merito, non mi vergogno assolutamente di affermare che Jacobsen sostenga una ipotesi assurda. Intanto perché il concetto di Abzu come mondo dei morti è di per sé fallace, inoltre perché niente, nei miti riguardanti Ningishzida, lo descrive come dio di fertilità. Un caso a parte, non esplicitamete riferito al nome di questo dio, ma a tre glifi presenti nel suo nome, é rappresentato da David Foxvog il quale traduce GISH.ZI(D).DA come 'muro laterale'. Di fatto invece, come abbiamo visto nelle iscrizioni di Gudea, il nome va traslitterato NIN.GISH.ZI.DA, dove ZI significa ‘respiro della  vita’ o semplicemente ‘vita’, e DA può assumere il significato del verbo ‘tenere – detenere’. Il nome dunque sarebbe “signore che detiene l’ albero / il manufatto della vita”. Si noti anche che il glifo di GISH è lo stesso di IZ(I) che significa ‘fuoco’ quindi potremmo avere un “Signore che detiene il fuoco della vita”.
Questo tradotto è il più lungo e più bel balbale a lui dedicato (ne sono catalogati ben quattro), secondo come testimonianza soltanto al mito noto come ‘Il viaggio di Ningishzida nel mondo di sotto’. Gustatevi questo inno dunque, in modo da conoscere meglio una delle divinità più ingiustamente trattate della letteratura mesopotamica.

Eroe, signore delle praterie, leone delle montagne lontane,
Ningishzida, accompagnato da grandi serpenti e draghi (*1),
grande toro, in battaglia sei un diluvio che (…),
la cui madre Ningirida ha fatto nascere dal suo corpo attraente,
allattato dal seno splendente, nutrito col veleno dei leoni,
cresciuto nell’ Abzu, magnifico mago che tiene la Eshda
che consulta le tavole e assicura la giustizia!
Signore, grande toro dalla giusta parola che odia il malvagio,
grande diluvio che nessuno osa ostacolare,
Ningishzida, nessuno osa ostacolarti quando semini confusione!
Le genti sono al tuo fianco,
pastore che sa come dirigere il popolo dalla testa nera (i sumeri),
la pecora e l’ agnello vengono a cercarti, (*2)
e tu sai come usare il tuo scettro con la capra e il vitello! (*2)
Ningishzida, sai come usare lo scettro da qui al futuro!
Il benevolo signore ti ha rivolto parole di fiducia dal momento nella 
nascita,
ha fatto sì che tu fossi creato,
principe dotato di avvenenza, Ningishzida,
seduto sul tuo trono rialzato, signore, dio, proteggi la vita, (*3)
vestito in regali abiti, con il tuo scettro di lapis lazuli,
a te uno shir-shub viene cantato
(…)
Scavi nel cuore di coloro che mentono,
ti getti su coloro che (…) e li bruci come un fuoco!
Il sapiente signore ha deciso per te un buon destino sul tuo trono,
il dio della giustizia ha pronunciato per te queste parole:
“Primissimo, signore dell’ assemblea in regali abiti,
signore che incuti paura nelle genti, luce della gente,
chi in cielo può eguagliarti?”
Eroe, dopo aver assistito alla battaglia si innalza nelle montagne,
Ningishzida, dopo la battaglia ti innalzi nelle montagne!
Signore che promuovi e porti il comando sulle terre,(*4)
I giovani che ti hanno come dio personale ti seguono (?)
Signore, miele degli dei, sia lode a Enki!
Ningishzida, figlio di Ninazu, (*5)
sia lode a Padre Enki!
Un balbale per Ningishzida.

(*1) il verso contiene alla fine, secondo la restaurazione da altre copie, il  TA-DA, che significa ‘to be  parallel  –  to be equal’ quindi il significato potrebbe essere ‘che ti accompagni a serpenti e draghi’ ma anche ‘che sei come serpenti e draghi’ (e di nuovo qualcuno potrebbe citare le leggende sui rettiliani).
(*2) ‘pecora e agnello’ e ‘capra e vitello’, sono metafore utilizzate per dire che sia gli adulti che i giovani cercano il consiglio del dio e che la sua influenza (lo scettro) si estende su entrambi. 
(*3) la parte finale ZID-DA viene normalmente tradotta come ‘braccio destro’, nel senso di ‘collaboratore’. Reputo sia errato in quanto abbiamo già visto la possibilità che in realtà si tratti di ZI-DA, ‘portare   / mantenere la vita’. Per di più non viene presentata una figura di cui il dio possa essere il ‘braccio destro’, il chè rende a mio avviso la traduzione ancora più fallace.
(*4) Sull’ETCSL il verso è tradotto come ‘tu che comandi il mondo di sotto (gli inferi)’ ma nel verso non compare nessuno dei termini convenzionali né di quelli eufemistici che i sumeri utilizzavano per tale regno. Ho dunque voluto tradurre letteralmente i termini presenti nel verso.
(*5) Ninazu, che dai sumerologi e gli studiosi di mitologia viene ritenuta una divinità a se, è secondo me (si veda in appendice) un identificativo di Enki. Questa convinzione mi viene in questo mito rafforzata proprio dal fatto che il nome compare nei versi finali di lode a Enki.

Altri miti sumeri tradotti da un ricercatore indipendente

Segnaliamo altri scritti sumeri tradotti da uno studioso italiano non seguace delle teorie di Sitchin e quindi non accusabile di piegare le traduzioni ai suoi scopi e alle teorie personali. 
Questi due brevi frammenti ci sembrano significativi: il primo perché, come fa notare lo stesso traduttore (anonimo, ahinoi, che ha messo a disposizione i frutti dell suo lavoro su Scribd), sembra descrivere qualche congegno tecnologico.
Il secondo invece ci pare importante perché narra la storia della dea Ninurta che ordina a re Gudea  la costruzione   del   tempio, là dove gli dei Nidaba e Ningishzida "impongono" di orientare il tempio secondo la levata eliaca e l’ allineamento di determinate stelle. E' importante perché ci si è spesso chiesti anzitutto se le antiche civiltà orientassero di proposito le costruzioni megalitiche secondo principi astronomici; in secondo luogo ci si è chiesti il motivo per cui lo facessero. Be', pare su mandato di questi misteriosi "dei"...
Vale la pena sottolineare che il lunghissimo scritto di Re Gudea, del quale abbiamo già parlato, è considerato un capolavoro di valore inestimabile nella letteratura sumeroaccadica. Vi si narra la storia della costruzione del tempio chiamato ENINNU (casa del 50) e del GIRSU (un recinto sacro) per il dio   Ninurta,   chiamato   nel   mito   D.NIN.GIR.SU   (il   dio   del   Girsu). Al che uno si domanda: cosa significa, ad esempio, "casa del 50"? Di preciso non sappiamo dirlo. E' interessante far notare che lo stesso numero si trova anche nella Kabbalah a BYNâH (termine che indica l'intelligenza, ma anche l'edificazione dell'anima...) è attribuito il valore di 50,  il quale coincide con il risultato della somma dei quadrati dei lati del triangolo rettangolo  (di proporzioni  3  /  4  /  5)   su  cui  si  basa  la  Master's  square:  è  pertanto all'Intelligenza  che  si rapportano  -  come  dimostrano  tutte  queste,  sottese  relazioni  -  sia  la Square,   sia   l'Arch   Masonry,   trovando   in   essa   attinenza   qualsiasi   opera   costruttiva   a qualsivoglia livello ontologico la s'intenda intraprendere. Quest'ultima frase è una citazione di un pezzo di Bruno d'Ausser Berrau, che immaginiamo rimarrà oscura per i moltissimi che non hanno nozioni di Kabbalah o Sephirot, e che tuttavia riusciranno a cogliere il fatto che quando si parla di mistica antica, di antichi popoli, di tradizioni religiose, si finisce sempre con il constatare come tutto si intreccia, si collega, corrisponde.


L'INNO DEI TEMPLI
Luogo innalzato in antichi tempi,
dalla camera silente, da una radura proietti (dirigi) il rossastro,
innalzi le tue meravigliose vie che nessuno può scorgere (capire).
Gishbanda, da dove ti erigi in una maglia che connette (controlla),
dalla quale fuoriesce e ritorna magnificente
nel tuo cuore la luce del giorno (del sole);
il tuo principe ha le mani pure e splendide come (verso) il cielo,
i capelli fluenti sopra la schiena, il signore Ningishzida.
Gishbanda di Ningishzida,
casa che giace in cima a una piatta pedana.
La casa di Ningishzida a Gishbanda.

IL SOGNO DI RE GUDEA
Nel mezzo del sogno ci fu una persona enorme come il cielo,
enorme come la terra,
la sua testa era come quella degli dei,
le sue ali erano quelle del’ uccello Anzu,
la sua parte inferiore era come un diluvio,
ai suoi lati c’ erano leoni accucciati,
mi ordinò di costruire la sua casa
ma io non capivo,
e il sole sorse.
Una donna poi apparve: chi era?
Sulla testa aveva dei covoni (?),
teneva in mano uno stilo di metallo prezioso,
e una tavola con incise stelle benigne
e la consultava.
Per secondo apparve un eroe,
con un braccio piegato e una tavola di lapis lazuli in mano 
nella quale disegnava il tempio.
Vedevo un canestro da lavoro splendente,
e un mattone splendente (?),
su cui era inciso il destino per me.
Vicino a me stava un albero Ildag (splendente)
ove un uccello Tigid annunciava l’ aurora.
Al suo fianco un piccolo asino scavava per terra (?)
Sua madre Nanshe rispose al sovrano:
“Pastore, lascia che ti spieghi il sogno:
la figura enorme come il cielo e la terra,
la cui testa era come quella degli dei,
le cui ali erano come l’ uccello Anzu e il cui corpo era un diluvio,
al cui lati stavano leoni accucciati,
era di sicuro mio fratello Ningirsu
e ti ordinava di costruire la sua casa: l’ Eninnu!
Il sole che sorgeva davanti a te,
era il tuo dio personale Ningishzida che ti mostrerà il sole.
La donna con i covoni sulla testa (?)
che teneva in mano lo stilo di metallo prezioso
e la tavola con le stelle benigne
e la consultava,
era mia sorella Nisaba,
le stelle di auspicio per il tempio (*1)
ti rivelava.
La seconda figura, l’ eroe, il cui braccio era piegato,
la cui mano teneva una tavola di lapis lazuli,
era Nindub che incideva il progetto del tempio.”

(*1) le stelle ‘favorevoli’ ai templi erano per i sumeri le stelle da utilizzare per l’ orientamento del tempio stesso. Le indicazioni del sogno indicano   quindi   che   il   tempio   doveva   essere   orientato   per   mirare alle stelle mostrate da Nisaba, ma contemporaneamente allineato verso la levata eliaca, rappresentata da Ningishzida.

mercoledì 14 agosto 2013

Scienza, parascienza e scienza eretica

Viene di questi tempi sovente indicato un ritorno all'"irrazionale" come una delle principali negative connotazioni sociologiche e culturali di questa fine di secolo, anzi di millennio, quasi che negli ultimi duecento anni il trionfo della mentalità illuminista sia stato davvero così totale da relegare per sempre nel "ciarpame della storia della stupidità umana" l'eterna credenza degli uomini nel soprannaturale. Invece, al di fuori dei programmi scolastici, e dell'ortodossia degli ambienti scientifici "ufficiali" di cui presto diremo, i credi in oggetto hanno sempre continuato ad occupare un posto importante, anche se sommerso, nell'insieme delle "visioni del mondo", e non hanno mai cessato di accompagnare la difficile esperienza dell'uomo su questo pianeta. Il fenomeno al quale si assiste è allora piuttosto quello del ritorno in modo esplicito sulla scena culturale delle credenze nell'occulto e nel paranormale, senza più complessi di inferiorità nei confronti di una "visione scientifica" del mondo che comincia a mostrare tutta la sua usura e la sua insufficienza di fronte a quelli che sono evidentemente profondi bisogni umani. Di un siffatto ritorno, e del "conflitto" con le teorie scientifiche correnti che ne è derivato, voglio in queste righe occuparmi: il punto di partenza è infatti la ben nota strenua opposizione che viene prodotta alle credenze di cui si diceva prima dai "seguaci" del punto di vista "scientifico", e vale la pena pertanto di cercare di individuare le motivazioni profonde di un tale atteggiamento, che consiste in qualcosa di più, e di diverso, dalle normali cautela ed esigenza di "rigore" che possono, anzi debbono, essere avanzate nei confronti di qualsiasi affermazione che esuli dai confini dell'ovvio o del già noto. Nell'occasione, parlerò anche del ruolo che la scienza "eretica", della quale sono da vari anni appassionato cultore, occupa in questo scontro, nella persuasione che le ragioni di fondo che ispirano i "fedeli" della scienza contro quelli della parascienza siano almeno in parte le stesse che sono alla radice della difesa dell'"ortodossia" scientifica contro i tentativi di scettici, critici e revisionisti.

Cominciamo a parlare di scienza versus parascienza. Prima di tutto va ben chiarito che l'ostilità di cui trattasi non è propria della fisica, bensì dei fisici, appellativo con il quale designerò in senso lato tanto i professionisti del settore, quanto più generalmente tutti coloro che nella scienza pongono il primo, ed a volte l'ultimo, fondamento dell'intero loro sistema conoscitivo. Distinzione questa meno irrilevante di quanto non possa sembrare a prima vista, dal momento che la fisica, intesa come complesso di teorie e di leggi elaborate allo scopo di spiegare e controllare quella serie di fenomeni naturali nei quali ci si è finora imbattuti, vuoi in modo casuale che programmato, non è una persona, ed è quindi del tutto indifferente allo scontro del nostro tema, al quale non porta contributi in nessuna direzione. In effetti, una teoria scientifica è per sua stessa natura limitata alla fenomenologia che la ha motivata e che cerca di comprendere, ed è assolutamente incapace di affermare alcunchè su fenomeni "nuovi" che appartengano a campi diversi da quello di propria competenza. Tanto per dire, non ci si può aspettare che usando le leggi della meccanica si possa essere capaci di prevedere quelle che regolano le interazioni elettromagnetiche, o di dedurre l'andamento dei processi termodinamici usando i principi dell'ottica. La fisica è invero ripartita in "settori" tutti in certa misura indipendenti tra di loro, ed a ben vedere neanche troppo "coerenti" nelle intersezioni, e pretendere di usarne uno in un contesto diverso da quello proprio specifico è impresa che nessun fisico si sognerebbe mai di compiere. Detto ciò, perché si riscontra invece la situazione di totale opposizione che stiamo analizzando? Come mai la nostra (poca) conoscenza del mondo naturale viene utilizzata da alcuni per negare a priori la possibilità dell'esistenza dei fenomeni cosiddetti "paranormali"? Al massimo, uno scienziato potrebbe intervenire soltanto per correggere i tentativi di "spiegazione" che qualche volta sprovveduti sostenitori della parascienza portano a sostegno delle loro "esperienze", nell'illusione che una patina di "scientificita'" possa rendere il loro discorso più accettabile. Quante volte ho sentito parlare fuor di luogo di "magnetismo", di "onde", di "inversioni di polarita'", etc.! In questi casi, se l'obiettivo di sembrare più fondati viene forse raggiunto nei confronti di persone poco preparate, non si fa che peggiorare viceversa la situazione nei riguardi degli altri che sanno di cosa si parla, i quali a volte, proprio per questi malsicuri tentativi di "chiarificazione", sono portati a rifiutare anche l'eventuale aspetto puramente fenomenologico delle asserzioni di telepati, veggenti, rabdomanti, radiestesisti, e così via.
La prima e la più evidente delle motivazioni che stanno alla radice dell'atteggiamento in esame è senza dubbio la fiducia assoluta, che ha quasi le caratteristiche di una fede, che molti fisici hanno nella validità delle teorie da loro fino ad oggi elaborate (e, bisogna pur riconoscerlo, con non trascurabile impegno). E' questa fiducia che li conduce poi, al di là di ciò che sarebbe lecito da un punto di vista strettamente scientifico, a due passi estremamente rischiosi: il primo, l'estrapolazione di risultati ottenuti in un certo ambito in situazioni del tutto diverse e non direttamente sperimentate, perché non sperimentabili nelle attuali possibilità; il secondo, il ritenere che la visione del mondo naturale (VMN nel seguito), o come si dice anche la Weltbild, così raggiunta sia, oltre che corretta nelle parti attualmente conosciute, anche completa, ovvero, che la natura non abbia più sorprese da offrirci, e ci sia più poco o nulla da sapere per ciò che concerne la sua struttura fondamentale.
Voglio fare qualche esempio per chiarire meglio questa doppia possibilità di errore. Riguardo alla prima "tentazione" del fisico, bisogna tenere presente che i fatti fisici sui quali sono fondate le nostre teorie, anche ammettendo che siano stati verificati al di là di ogni ragionevole dubbio dal punto di vista sperimentale, sono stati pur sempre ottenuti soltanto in laboratori terrestri, sicchè non si può essere del tutto sicuri che abbia torto chi sostenesse invece ipotesi diverse da quelle che vengono oggi accettate e divulgate sulla natura di fenomeni che avvengono "lontano" da noi. Un noto astrofisico, H. Arp, molto stimato prima di diventare un "contestatore", ha avanzato di recente l'ipotesi che la materia non sia sempre "uguale" dappertutto, ma presenti anch'essa fenomeni di "invecchiamento", ovvero che esistano atomi per così dire giovani, ed atomi vecchi. Noi qui sulla terra avremmo a che fare "naturalmente" con atomi tutti più o meno della stessa età, ma altrove gli atomi di un'identica sostanza, ferro, carbonio, etc., potrebbero avere una differente età, e presentare quindi caratteristiche diverse. Ne conseguirebbe ad esempio che fare dei calcoli sugli spettri della radiazione emessa da sorgenti lontane trattando l'ipotetica materia da cui queste sono costituite come in tutto simile a quella con cui abbiamo a che fare qui sul nostro pianeta sarebbe profondamente sbagliato in linea di principio. Poiché è proprio da questo calcolo invece che i fisici inferiscono il primo fondamento della teoria del big-bang, vale a dire il preteso allontanamento delle galassie lontane, ecco che tale fenomeno non sarebbe più propriamente un "fatto" fisico, ma soltanto un'errata valutazione della velocità delle galassie in oggetto. Per inciso, va detto che Arp e' stato progressivamente emarginato dagli ambienti della ricerca "che conta", e che gli è stato rifiutato ulteriore "tempo di telescopio", con la motivazione che la sua proposta di ulteriori ricerche è "priva di valore". Questa circostanza suggerisce l'opinione che la "scomunica" degli scienziati non e' riservata soltanto ai seguaci del paranormale, ma ad ogni atteggiamento "eretico": scrive P.K. Feyerabend che "la scienza è diventata oggi non meno oppressiva delle ideologie contro cui dovette un tempo lottare", e che "gli eretici nella scienza devono ancora soffrire le sanzioni più severe che questa società relativamente tollerante può applicare".
Gli esempi di "illecite" estrapolazioni si potrebbero moltiplicare, così come quelli di concezioni non-convenzionali che hanno invece qualche possibilità di essere "più vere" di quelle convenzionali, e di conseguenti atteggiamenti "intolleranti" della comunità scientifica, ma forse è più opportuno osservare per concludere la prima parte di questa analisi che tutti i famosi principi della fisica provengono quasi sempre da generalizzazioni di questo tipo, ed il guaio è che molti scienziati se ne dimenticano, presentando in modo del tutto anti-storico e dogmatico la loro disciplina come un complesso monolitico ed indiscutibile.
Quest'ultima osservazione riporta anche direttamente alla seconda delle sopra dette "tentazioni", ovvero alla questione della "completezza". Tutta la storia della scienza, quando non condotta con fini esclusivamente apologetici, come pure spesso capita, insegna al contrario che la fisica è una creazione umana e fallibile, e che ogni volta che qualcuno ha tentato di indicare come concluso il compito, ecco che si sono aperti nuovi campi di possibilità e di sperimentazione, che nuove forze, nuove forme di energia sono state scoperte. Il matematico A.N. Whitehead ricorda come i suoi professori di fisica a Cambridge all'inizio di questo secolo ritenessero che "quasi tutto quello che c'era da sapere in fisica fosse ormai conosciuto", e che questa disciplina fosse diventata ormai "un soggetto quasi chiuso". Tali previsioni venivano avanzate proprio alla vigilia delle grandi scoperte di questo secolo sull'energia atomica, e della completa rivoluzione delle nostre conoscenze sulla struttura della materia e dell'universo, tanto che Whitehead aggiunge dei commenti sulla profonda impressione che questa circostanza ebbe su di lui, concludendo con le parole: "Ebbene, sono stato ingannato una volta, e che io sia dannato se sarò ingannato di nuovo". Evidentemente la storia si ripete, visto che mi è capitato di assistere spesso ad identiche "professioni di fede" da parte di colleghi fisici di oggi!
Veniamo infine alla questione della "validità" della fisica almeno per quello che essa ha attualmente prodotto nei campi dall'uomo più sperimentati. Il fatto che la nostra conoscenza delle leggi del mondo naturale sia purtroppo ancora tale da far dire ad un altro celebre matematico, R. Thom, che "sappiamo calcolare tutto ma non spiegare nulla", e che le attuali teorie fisiche "concettualmente non hanno né capo né coda", dovrebbe condurre a ben altro atteggiamento che alla diffusa fiducia nell'immutabilità delle sue "leggi", anche solo in relazione a quelle teorie che per ora vengono considerate come stabilite "oltre l'ombra del dubbio" (per usare una imprevidente espressione del fisico C. Will a proposito della teoria della relatività cosiddetta "speciale"). C'è invece oggi la concreta possibilità ad esempio che fenomeni quali quello della "fusione fredda" conducano ad un ripensamento su tutta una serie di opinioni sulla struttura dell'atomo e della materia considerate ai nostri giorni come "certe", o che piu' approfondite analisi critiche sui fondamenti dell'elettromagnetismo possano modificare anche la nostra concezione dello spazio e delle sue "qualità" fisiche. Ai giorni nostri sono purtroppo ancora pochi coloro che, consapevoli di ciò, si aspettano grandi rinnovamenti da future ricerche anche in settori che sembrerebbero definitivamente stabiliti, e forse anche inimmaginabili vantaggi tecnologici per l'umanità a seguito della scoperta di nuovi modi di ottenere energia. Chi scrive queste righe non può di conseguenza non lamentare le difficoltà che vengono continuamente frapposte a coloro che ricercano in settori non convenzionali (i nuovi "eretici" di cui si parlava prima), ai quali viene impedito l'accesso ai fondi per la ricerca o ai mezzi di comunicazione della comunità scientifica, che vengono più utilizzati per la produzione di "titoli" efficaci per la progressione delle carriere che non per la divulgazione di nuove idee ed il dibattito tra punti di vista contrapposti.

Detto di questo primo ordine di motivazioni, che è in comune tra le due opposizioni scienza/parascienza e scienza/scienza eretica, si deve ritenere che il primo dei due conflitti sia così completamente spiegato, e che l'ostracismo nei confronti dei cultori del paranormale sia analogo a quello che gli scienziati "ortodossi" praticano nei confronti degli "eretici"? O esistono piuttosto altre piu' profonde ragioni di questa ostilità? Sosterrò in questa seconda parte del lavoro la tesi che esistono ulteriori motivazioni, che potremmo dire di tipo "metafisico", perché radicate in un terreno che esula dall'ambito propriamente scientifico per sconfinare in quello "filosofico", le quali costituiscono un ostacolo di fatto insormontabile per un sereno atteggiamento degli appartenenti alla comunità scientifica nei confronti di coloro che gravitano invece intorno all'ambiente della parascienza.
Abbiamo accennato prima al fatto che attraverso successive estrapolazioni ed una presunzione di completezza si costruisce quella che abbiamo chiamato una "visione del mondo naturale" (VMN). Che relazione c'e' tra una VMN e una "visione generale del mondo" (VGM), quella che si dice anche una Weltanschauung, vale a dire il complesso totale delle credenze di un individuo, tra le quali trovano posto, oltre alle opinioni sulla natura dell'universo, anche quelle sull'uomo, il suo ruolo ed il suo destino, in altre parole tutte quelle istanze relative al significato che sono poi alla base dei nostri comportamenti etici? Esprimendoci sinteticamente, possiamo dire che una VGM è costituita dall'unione di una parte fisica e di una parte "metafisica", ovvero, nei nostri termini, di una VMN e di una parte complementare che riguarda tutto il resto. Ciò premesso, è chiaro che non è possibile "attaccare" ad una data VMN una qualsiasi metafisica, perché è necessario allo scopo di costituire una VGM coerente che ci sia una certa forma di accordo, di armonia, tra VMN e credenze metafisiche. E' questa ovvia necessità che si ritrova ad esempio alla radice degli storici conflitti tra la scienza e la "fede", valga per tutti quello paradigmatico tra Galileo Galilei e Roberto Bellarmino. In effetti anche nelle VGM nelle quali la parte metafisica è preminente esiste sempre almeno in embrione una VMN; e, viceversa, anche se in una VGM è preminente la parte naturale, come nel caso dello "spirito" del nostro tempo di cui presto dirò, la parte metafisica non può essere mai del tutto vuota. Le modifiche proposte da Galileo alla VMN del tempo furono allora viste giustamente sotto questo punto di vista dal Bellarmino come un attentato a tutto l'edificio conoscitivo, proprio perché consapevole del fatto che un'esigenza di coerenza avrebbe imposto all'uomo come essere raziocinante anche una revisione della parte metafisica che voleva difendere.
Cercherò di esprimere questo concetto anche in un altro modo, usando la terminologia, oggi di moda, ispirata a K. Popper: se è vero che in una VGM la VMN costituisce la parte più di rettamente falsificabile, è però anche vero che la parte rimanente non sfugge neanche lei ad un suo specifico "criterio di falsificazione", proprio perché l'esigenza di coerenza impone il rifiuto di opinioni metafisiche che diventano, se non proprio confutate, quanto meno implausibili alla luce di certe conoscenze fisiche. Per prevenire qualche obiezione, va detto che così come un accrescimento di queste ultime non necessariamente modifica una VMN, così pure un mutamento della VMN non impone comunque un riassestamento della parte metafisica di una VGM. E ancora, non è detto che la dialettica interna tra le due parti in cui abbiamo suddiviso una VGM si sviluppi sempre in sequenza temporale, vale a dire storicamente, con una precedenza dell'una sull'altra: assistiamo a casi nei quali è la parte metafisica che viene suggerita da quella naturale, ed a casi inversi nei quali è la parte metafisica che per così dire "inventa" la VMN. Allo scopo di illustrare quanto precede con un esempio, oltre al "caso Galilei", basta pensare alle "difficoltà" nelle quali si è trovato il pensiero cattolico (o, piu' generalmente, qualsiasi VGM che ricorra al concetto di un "creatore"), all'apparire delle prime ipotesi sulla teoria dell'evoluzione di J.B. Lamarck e C. Darwin. Per terminare su questo aspetto della questione, se è vero che una metafisica "viva" dispone di risorse concettuali ed interpretative tali da permetterle di non correre i rischi di una vera e propria teoria sperimentale, è anche vero che un costante sforzo di revisione o di adattamento può alla lunga essere sentito come troppo faticoso, e soprattutto artificiale, con conseguente "abbandono" della VGM che si stava cercando di sostenere. Alla luce di quanto detto, si comprende come quando si parla ad esempio oggi di "morte di Dio", non si fa altro che riferirsi alle difficolta' delle metafisiche tradizionali di fronte all'estendersi ed al consolidarsi di una VMN che, acquistata autorevolezza grazie alle conquiste tecnologiche che abbiamo tutti sotto gli occhi, riferisce a circostanze spontanee e fortuite l'origine tanto della vita quanto dell'universo. La situazione nella quale si può trovare ancora oggi chi voglia cercare di conciliare "scienza" e "fede" e' perfettamente descritta da un altro matematico, G. Melzi:

"La preoccupazione [...] è che possa diventare da un momento all'altro inevitabile la scelta fra queste alternative, tutte egualmente deprecabili: ridimensionare le proprie aspettative di verità dalla parte della scienza, ridimensionare le proprie aspettative di cultura dalla parte della fede, ridimensionare la propria mente imponendole il quadro depresso della doppia verità, anzi della verità a due piani".

Quest'ultima osservazione suggerirebbe invero che quella particolare forma del "principio di non contraddizione" sulla quale sto cercando di fondare l'interazione tra parte naturale e parte metafisica di una VGM, non è forse poi così comune, e che alcuni (molti?) riescono a convivere senza troppi disturbi anche in presenza di qualche incoerenza, purché non simultanea, ovvero, a livelli diversi del sistema della conoscenza (mi riferisco sempre qui ovviamente ad un contesto per quanto possibile sincronico). Sulla reale possibilità, e sulla frequenza "storica" di siffatta "schizofrenia" intellettuale, non mi soffermerò, anche se il tema meriterebbe una particolare attenzione. Preferisco invece dedicare qualche riga, per non essere frainteso, alla confutazione delle opinioni "irrazionali" che sostengono che sia sempre il quadro metafisico a determinare quello fisico ("è l'opinione che crea i fatti, è la teoria che fa gli esperimenti"), e fanno assomigliare allora lo scienziato al poeta, ad un costruttore di "miti". Ritengo invece che la scienza abbia per sua propria natura a che fare comunque con tutta una serie di fatti naturali accertati o accertabili, ripetibili ed immodificabili, questi sì costituenti (con la prudenza della quale si deve tener conto in virtù di quel che si diceva prima) il nucleo irreversibile e saldo di ogni serio "sistema" conoscitivo. E' vero piuttosto, come abbiamo detto, che, dal punto di vista diacronico, VMN e metafisica sono in un rapporto "dialettico" senza un fissato ordine di precedenza, che qualche volta, come insegna la storia, è stata l'una a guidare l'altra, e qualche volta viceversa, anche se è naturalmente vero che, nel caso si diano due diverse teorie che inglobano il "nucleo" di cui si diceva prima, allora è piuttosto la coerenza con un quadro metafisico già accettato quella che opera la selezione tra di esse, che non altre ragioni strettamente scientifiche. La situazione non giustifica quindi né i tentativi di "riduzione" della Weltbild alla Weltanschauung, o viceversa, né deve fare comunque dimenticare che la parte più certa della nostra conoscenza, e con la quale dobbiamo sempre fare i conti, è quella che ci rapporta con il reale. Se si dimentica questa necessità, si corre il rischio di scambiare per certezze i nostri desideri, di dare corpo ai "sogni" ispirati dalle nostre pulsioni profonde, di "credere" a fantasie con le quali si cerca di esorcizzare il timore della morte. 
Per tornare al tema principale del nostro discorso, è ormai chiaro che la motivazione "profonda" che stavo cercando di determinare è proprio la visione generale del mondo che molti fisici hanno a comune, quella che C.G. Jung chiama lo spirito del tempo, che nel nostro caso è ormai consolidato da oltre due secoli. Con questo non voglio certo affermare che tutti i fisici hanno la stessa VGM (ci sono evidentemente eccezioni), ma che la maggior parte delle loro singole VGM, con le innumerevoli possibili varianti, appartengono tutte comunque ad una stessa famiglia (alla quale mi piace riferirmi come a quella della "III meta fisica"). In altre parole, ritengo che la VMN costruita dagli inizi della scienza moderna fino ad oggi, se non proprio implichi logicamente, almeno alluda ad una ben precisa VGM, quella che Tolstoij con sensibilità di letterato individuò e descrisse correttamente quasi un secolo fa (precisamente nel 1884, prima ancora che la fisica atomica e nucleare fossero sorte):

"Nello spazio infinitamente grande, in un tempo infinitamente lungo, particelle infinitamente piccole si modificano in una complessità infinita, e quando tu avrai capito le leggi di tali modificazioni, allora avrai capito anche perche' vivi".

E' questo lo "spirito del tempo" con cui abbiamo a che fare, il quadro metafisico nel quale è nata, e si è poi sviluppata, vieppiù rafforzandolo, tutta la nostra scienza occidentale, anche a costo di cedere alle "tentazioni" di cui si diceva prima, quasi un tributo che un figlio dovesse rendere al proprio padre. Invero, una siffatta concezione si impose gradatamente assieme a quello che chiamerà un "processo di deantropocentrizzazione". All'inizio, fu la scoperta di un Nuovo Mondo a cominciare a mettere in crisi la rassicurante idea di un essere umano creatura privilegiata del cosmo, posta a vivere al centro di un'unica estensione di terra circondata dalle acque, situata a sua volta al centro dell'universo sotto lo sguardo costante di Dio, concezione anche questa seconda che veniva subito dopo definitivamente (?) smantellata da Copernico. Poteva restare comunque un posto privilegiato all'uomo in quanto questi si immaginasse dotato di una "parte spirituale", un'anima, che lo differenziasse dal resto dei componenti del regno animale, ma Darwin e seguaci distrussero anche questa illusione. L'ultima spiaggia dell'orgoglio umano era a questo punto rappresentata dal fatto che almeno con le sue "categorie mentali" l'uomo era in grado di comprendere le leggi della gigantesca macchina nella quale si trovava a vivere (giusta lo spinoziano "Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio rerum"), ma A. Einstein convinse tutti che anche i concetti di spazio e tempo con i quali si costruiva la fisica "classica" non erano altro che semplici prodotti del nostro povero cervello di mammiferi primati, e che poco si addicevano alla realtà intima di una natura assai piu' complessa, e da allora in poi anche sempre più impossibile da concepire "razionalmente". Nella scienza contemporanea si assiste allora al fenomeno che il fisico F. Selleri definisce "l'epistemologia della rassegnazione": ci si rifugia nelle "specializzazioni", e ci si persuade che, più che alla ricerca della "verità", lo scienziato (il filosofo) debba volgere i suoi sforzi alla produzione di "modelli utili", e tuttavia la cittadella dell'ortodossia continua ad essere strenuamente difesa sulle "vecchie" basi.
C'e' chi in effetti vede nelle conseguenze filosofiche della fisica del XX secolo un notevole mutamento di prospettiva rispetto al materialismo meccanicista dell'800, ma io indicherei, più che le ovvie differenze tra le due, una loro rilevante somiglianza: e cioè che dipendono entrambe per la parte metafisica dal tentativo riduzionista di eliminare dal dualismo materia/spirito uno dei due poli per farne una conseguenza dell'altro. Se nell'800 si tentò a questo scopo senza successo di "determinare lo spirito" (concezione peraltro ancor oggi diffusa presso molti scienziati), nel '900 si e' cercato simmetricamente di "indeterminare la materia", ma il fine ed il risultato è stato sempre lo stesso. Per esemplificare meglio quanto precede vorrei citare infine alcune parole di un altro grande matematico, E. Kaehler, nelle quali, dal mio punto di vista, la matematica, come linguaggio della fisica, può venire identificata con questa: "La matematica, l'intelletto sviluppato dall'umanità, e la filosofia, il dominio dello spirito, costituiscono un'unità, un equilibrio, fra le forze dell'analisi e quelle della sintesi. Lo stato presente delle scienze non realizza questa unità spirituale. La maggior parte della matematica non è che energia potenziale dello spirito, mentre un'altra parte della matematica ha quasi soffocato lo spirito, nella misura che il dogma dell'uomo moderno si riduce alle tre umiliazioni dell'umanità constatate da S. Freud: la decentralizzazione della terra, l'interpretazione della vita come un fenomeno di vecchiaia della natura, la riduzione dell'ego umano ad un centro di aggressione e di sessualita'".
Per avviarci ormai verso la conclusione, ecco che ho creduto di individuare nel descritto spirito del tempo, nell'unica metafisica oggi ammissibile per un "vero" scienziato, che non voglia tenere in alcun conto residui di "vecchie superstizioni", la ragione profonda del conflitto tra scienza e parascienza, o meglio, tra scienziati e "parascienziati". Esiste infatti un'assoluta incompatibilità tra le affermazioni sul paranormale, per ciò che esse sottintendono in relazione ad un ruolo particolare dell'essere umano, e quella Weltanschauung che ho cercato di descrivere prima nelle sue linee essenziali. E naturalmente, come ci dice Jung, "con lo spirito del tempo non è lecito scherzare: esso è una religione, o meglio ancora una confessione, un credo, a carattere completamente irrazionale, ma con l'ingrata proprietà di volersi affermare quale criterio assoluto di verità, e pretende di avere per sé tutta la razionalità".
Per quanto attiene infine alla scienza "eretica", sono dell'opinione che questo conflitto metafisico sia presente, almeno nello sfondo, anche nell'ostilità che gli scienziati ortodossi praticano nei confronti dei sostenitori di teorie non-convenzionali, al di là di più appariscenti motivi economici, o di prestigio e di potere accademico: sia perché modificazioni della VMN, anche se non necessariamente conducenti a sconvolgimenti di una VGM, sono comunque malviste, sia perché operazioni di "igiene mentale", quali ad esempio quella proposta dal fisico R. Monti in opposizione alla teoria della relatività, ed in favore di un "principio di razionalità" con cui si vorrebbe rifondare la fisica sulle "nozioni ordinarie" di spazio, tempo e causalità, vanno comunque in senso inverso al processo di deantropocentrizzazione dianzi accennato.
Come si potrà uscire da un siffatto stato di cose? E' possibile che la scienza, con l'appoggio fornitole anche dalla tecnologia, schiacci del tutto ogni opinione rivale, così come è possibile viceversa che una "rivoluzione irrazionale" porti a dimenticare anche quanto di buono la scienza ha fatto soprattutto nel campo della pura conoscenza, che è quello che deve stare a tutti più a cuore. Le due alternative sono entrambe da temere, e la speranza invece è che, considerando fallito il tentativo di un "mondo senza spirito", qualcuno riesca a costruire le linee fondamentali di una IV metafisica, che affianchi come altrettanto reale a quello materiale un polo spirituale: ma né uno spirito contrapposto in qualche misura al mondo, come avviene secondo l'impostazione dualista, né, alla moda "idealista", uno "spirito senza mondo". La novità che bisogna forse cominciare a esaminare è quella di uno "spirito nel mondo", del quale si riconoscano allora di conseguenza anche le debolezze ed i limiti. Una metafisica che, come sintesi delle precedenti, sia edificata con frammenti di quelle, ma realista senza essere riduzionista, scientifica senza essere materialista.
Ci sarà spazio nella IV metafisica per i fenomeni paranormali? Sarebbe imprudente azzardare una previsione, anche se personalmente, per quel poco che mi è capitato di incontrare nella mia esperienza di vita, ne dubito molto, visto che questi potranno essere accettati solo quando usciranno dal piano della paranormalità per entrare in quello puro e semplice della "normalità". Con questo non voglio dire che la loro spiegazione naturale dovrà essere necessariamente "facile", o nei termini delle teorie già a disposizione, ma che almeno sul piano fenomenologico la loro reale esistenza dovrà essere accertata al di là di ogni dubbio, viceversa oggi molto giustificato. Al proposito, ho addirittura l'impressione che molto dell'interesse per il paranormale, più che provocato da un reale imbattersi in fenomeni di questo tipo (si noti quanto è frequente nei loro resoconti il riferirsi ad "altri", come nelle "leggende metropolitane"), non sia in verità altro che espressione di un rifiuto della III metafisica, e della conseguente esigenza filosofica di una nuova visione generale del mondo. In altre parole, chi vorrebbe reintrodurre con tutti i diritti il termine di "spirito" nel dibattito delle idee, ritenendolo più aderente alla descrizione della propria esperienza personale, guarda allora con interesse e speranza all'esistenza di fenomeni paranormali come ad una eventuale prova di quello, quasi che ci fosse bisogno di ulteriori prodigi oltre alla constatazione, direttamente ed immediatamente sperimentata da ogni soggetto pensante, di una materia che diventa cosciente di se stessa, soffre ed ama.
Alcuni degli elementi costitutivi di questa nuova metafisica, che possa restituire alla nostra conoscenza quell'unità spirituale di cui sentiamo il bisogno, si intravedono già nelle riflessioni di alcuni pensatori contemporanei, ma è chiaro comunque che per condurre in porto la sua costruzione dovremo ancora aspettare colui che saprà trovare parole nuove per esprimere concetti nuovi, anche se "antichi".

Umberto Bartocci
Dipartimento di Matematica Università di Perugia