Dobbiamo dire che - nelle nostre esplorazioni della letteratura classica accessibile al Guercino - non abbiamo trovato nulla che possa costituire un referente letterale adeguato al suo quadro, salvo un solo brano che si dimostra però altamente significativo. Non ci sembra quindi per nulla inverosimile che Guercino abbia potuto leggere le Storie di Erodoto - nella versione latina di Lorenzo Valla, data alle stampe in Venezia nel 1474, oppure nel volgarizzamento di Matteo Maria Boiardo, pubblicato sempre in Venezia nel 1539 - e imbattersi con la più viva curiosità nel passo seguente che narra un episodio - peraltro altamente inverosimile - occorso durante il lungo conflitto che oppose Spartani e Arcadi:
"67. Così durante la prima guerra sempre con esito costantemente sfavorevole lottarono contro i Tegeati; invece al tempo di Creso e del regno a Sparta di Anassandrida e Aristone gli Spartani erano ormai riusciti vincitori nella guerra, e lo erano riusciti nel modo seguente: [2] poiché venivano sempre battuti in guerra dai Tegeati, mandarono messi a Delfi per chiedere quale degli dei propiziandosi sarebbero riusciti superiori ai tegeati nella guerra. E la Pizia profetò loro che lo sarebbero riusciti quando avessero ricondotto in patria le ossa di Oreste figlio di Agamennone. [3] Ma, poiché non furono capaci di rintracciare la tomba di Oreste, mandavano di nuovo al dio per chiedere il luogo in cui Oreste giaceva. Ai messi che le rivolgevano questa domanda così la Piziarisponde: [4] «C'è una Tegea d'Arcadia in luogo piano, ove due venti spirano sotto una forza possente e c'è colpo e contraccolpo, e danno su danno. Lì la terra datrice di vita tiene l'Agammennonide; tu portandolo via sarai vincitor di Tegea» [5] Quando gli Spartani ebbero udito ciò, benché da per tutto cercassero, pure non erano meno lontani dal trovarlo, finché Lica, uno degli Spartani detti «benemeriti», lo trovò. I «benemeriti» sono cinque cittadini, scelti ogni anno, sempre i più anziani, fra i cavalieri; questi nell'anno in cui sono tratti a sorte fra i cavalieri hanno il dovere di non stare mai in ozio, e vengono mandati chi qua chi là dallo stato spartano.
68 Lica dunque, uno di questi uomini, aiutato e dal caso e dalla sua avvedutezza la trovò a Tegea. Essendoci in quel tempo libertà di scambio con i Tegeati, capitato in una officina egli osservava la lavorazione del ferro, e stava tutto meravigliato a contemplare il lavoro. [2] Il fabbro, accortosi della sua meraviglia, gli disse interrompendo il lavoro: «Certo, o ospite spartano, se tu avessi visto ciò che io vidi molto ti saresti meravigliato, dal momento che tanto ammiri la lavorazione del ferro. [3] Ché io, volendo farmi in questo cortile un pozzo, scavando trovai un'urna di sette cubiti. Non credendo che fossero mai esistiti uomini più grandi di quelli di oggi la aprii e vidi il cadavere, che era della stessa lunghezza dell'urna. Dopo averlo misurato tornai a seppellirla». Questi dunque gli diceva ciò che aveva visto, e l'altro, avendo riflettuto su tali parole, congetturava che secondo l'Oracolo quello doveva essere Oreste, da questo arguendolo: [4] vedendo i due mantici del fabbro trovò che erano i venti, e l'incudine e il martello erano il colpo e il contraccolpo, e il ferro lavorato il danno aggiunto a danno, da questo a un dipresso desumendolo, che il ferro è stato inventato per la rovina degli uomini. [5] Fatte questo congetture se ne tornava a Sparta e riferiva ai lacedemoni ogni cosa. Ma essi lo bandirono, accusandolo di falso. Allora, tornato a Tegea e esposta al fabbro la sua disgrazia, tentava di prendere in affitto il cortile, mentre quello non voleva darlo. [6] Come poi col tempo l'ebbe persuaso, andò ad abitarvi e allora, scavata la tomba e raccolte le ossa, tornava con esse a Sparta e da quel momento, ogni volta che combatterono fra loro, gli Spartani riuscirono di gran lunga superiori in guerra."
Riteniamo che il Guercino - la cui sensibilità era assai più vicina della nostra a questo genere di virtuosismi - o, comunque, qualcuno per lui, abbia inteso immediatamente quel che d'altra parte notano anche i curatori delle attuali edizioni di Erodoto: che cioè il brano in questione non ha nulla a che vedere con la storia effettiva del conflitto tra Lacedemoni ed Arcadi, essendo null'altro che una "favola poetica", scientemente inseritavi dall'autore oppure - cosa secondo noi meno probabile - ereditata come già inserita da una fonte precedente. Infatti, a proposito della pretesa libetà di scambio con i Tegeati, Gianfranco Maddoli, curatore del volume Erodoto e Tucidide, scrive: "Il dato, in contrasto palese con la situazione di guerra, appare un'invenzione di Erodoto per giustificare il racconto aneddotico." A nostro modo di vedere questa leggenda erodotea non è null'altro che la narrazione - simbolica e, per la verità, assai trasparente - di un'iniziazione ad antichi misteri metallurgici, sul tipo di quelli dei Cabiri - ed è noto che Erodoto era iniziato ai misteri di Samotracia - come li presenta Mircea Eliade nel suo ormai classico Arti del metallo e alchimia:
"Si è sottolineato che, nella Grecia arcaica, alcuni gruppi di personaggi mitici - Telchini, Cabiri, Cureti, Dattili - costituiscono confraternite segrete, in relazione con i misteri oppure gilde di lavoratori di metalli. Secondo le diverse tradizioni i Telchini furono i primi a lavorare il ferro e il bronzo, i Dattili Idei scoprirono la fusione del ferro e i Cureti la lavorazione del bronzo; questi ultimi erano, inoltre, famosi per una loro danza particolare, che eseguivano facendo cozzare le armi. I Cabiri e i Cureti sono chiamati «signori delle fornaci», «potenti per mezzo del fuoco», e il loro culto si è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo orientale. I Dattili erano preti di Cibele, divinità delle montagne ma anche delle miniere e delle caverne, che avevano la propria sede all'interno delle montagne. [...] Disponiamo, quindi, di tracce mitologiche di una situazione arcaica in cui le confraternite dei fabbri assolvevano un ruolo preciso nei misteri e nelle iniziazioni."
E ancora:
"Pare dunque che esista, a livelli culturali differenti, ed è indice di grandissima antichità, un legame intimo tra l'arte del fabbro, le scienze occulte (sciamanismo, magia, guarigione, ecc.) e l'arte della canzone, della danza e della poesia. Queste tecniche solidali sembra, inoltre, che si siano trasmesse in un'atmosfera pregna di sacralità e di mistero, che comportava iniziazioni, rituali specifici, «segreti del mestiere»."
Infatti, tenuto conto di ciò, se rileggiamo il brano con un po' più di attenzione ci accorgiamo che - durante un'improbabile tregua commerciale stipulata nel pieno della guerra del Peloponneso - uno spartano di nome Lica si reca nella città arcade di Tegea, sulle tracce delle ossa di Oreste. Non si può fare a meno di notare che Líches (Lica) viene da léicho (lecco, lambisco), esattamente come líchnos (ghiotto; goloso; avido; bramoso; curioso). Lica - colui che è curioso, bramoso (di conoscenza) - è dunque il prototipo dell'iniziando.
Allo stesso modo Teghéa (Tegea) viene da stégo (copro; proteggo; custodisco; difendo; nascondo; tengo occulto, segreto; tengo lontano; respingo; resisto a) prestandosi così assai bene a costituire il luogo più logico in cui deve recarsi chi vuole essere iniziato. Che Guercino non sapesse di greco è assai poco rilevante, dato che i significati dei nomi greci costituiscono solo elementi accessori della nostra interpretazione. Aggiungiamo che comunque questi sono talmente trasparenti da risultare accessibili anche a chi non conosca tale lingua: "Lica" evoca giustamente - attraverso il latino "lingo" - l'italiano "leccare", mentre "Tegea" evoca "proteggere", attraverso il latino "tego". E, in ogni caso, abbiamo già detto che il brano erodoteo e la sua interpretazione avrebbero benissimo potuto essergli suggeriti. Così Lica si ferma davanti alla bottega di un fabbro intento a lavorare il ferro, già ammirando l'aspetto essoterico, esposto agli occhi di tutti, della sua attività. Notando ciò, il fabbro accenna a un'implicazione meno triviale della propria esperienza, che potrebbe meravigliarlo ancor più (il ritrovamento favoloso dell'urna funeraria nel cortile). Di ritorno a Tegea dopo lo sfortunato interludio spartano, Lica cerca di affittare il cortile (di essere iniziato) ma senza successo ("colei che respinge" è appunto uno dei significati del nome "Tegea"): conseguirà la propria meta solo dopo un certo numero di sforzi. Resta da vedere cosa ha a che fare un "segreto di mestiere" con le ossa di un eroe mitologico, e a questo proposito Eliade ci fa notare non solo che i complessi mitico-rituali legati all'attività metallurgica implicano "il sacrificio o l'autosacrificio di un dio" ma anche che: "Secondo altre tradizioni, anche un semidio o un Eroe civilizzatore, messaggero di Dio, può essere all'origine dei lavori minerari e metallurgici."
Questa "favola poetica", così trasparente persino ai nostri occhi, doveva esserlo molto di più a quelli di un uomo del seicento, epoca in cui magia, astrologia e alchimia erano una componente fissa e abbondante della dieta culturale. Lo stesso Newton, ancora nel 1728, scriveva: "Le antichità Greche sono piene di finzioni Poetiche, perché i Greci non scrissero nulla in Prosa, prima della Conquista dell'Asia da parte di Ciro, re di Persia."
Come è noto il '400, il '500 e la prima metà del '600 sono i secoli in cui in particolare la passione per l'alchimia si generalizza al punto da somigliare a un delirio di massa. Le pubblicazioni su questo argomento divengono incredibilmente numerose: Borelli stimava che esse ammontassero a più di quattromila titoli e tutti, scienziati, principi, monaci, preti e porporati, curiosi di cose naturali, ciarlatani e illusi si davano a questo genere di ricerche.
Alla corte dell'imperatore d'Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e d'Inghilterra, nei palazzi cardinalizi, si distillavano erbe, si preparavano oli e si trattavano metalli secondo metodi alchimistici, sia per fabbricare farmaci, sia per fare l'oro. E lo stesso accadeva in Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove Francesco I, o lo stesso Emanuele Filiberto, attendevano con le proprie mani, tra fornelli e alambicchi, alle operazioni alchimistiche. È verosimile pensare che gli artisti, di solito chiamati dai loro committenti a rappresentare lo spirito dell'epoca, potessero essere estranei a tale movimento? Vi è da notare poi che il fatto della preparazione dei colori poneva allora la pittura in adiacenza con l'arte spagirica. Così, se non ci siamo sbagliati, possiamo ora tornare a guardare il quadro con occhi nuovi per comprenderne il senso letterale, obbligatoria porta d'ingresso alla decifrazione di tutti gli altri: non vi vediamo più due "pastori" davanti a un teschio, bensì l'iniziando Lica -come si conviene vestito di bianco - che, in compagnia del fabbro suo iniziatore - a sua volta vestito del colore del fuoco - sosta pensoso in contemplazione del mistero metallurgico cifrato dalle ossa di Oreste. Il tutto, naturalmente, nell'Arcadia menzionata dall'iscrizione misteriosa, il cui senso cominciamo finalmente a comprendere. Abbiamo già messo in luce il dettaglio che questa - essendo loro invisibile - non è per i due personaggi bensì per lo spettatore cui, evidentemente, vuole comunicare qualcosa.
Sul "che cosa" le illazioni si sono sprecate: gli accademici - da Panofsky a Lévi-Strauss - suppongono che essa manchi del verbo e la completano con un "sum", assumendo che sia la morte stessa a pronunciarla. Ma, anche così, la frase continua ad essere sgrammaticata: il che deve pur venire spiegato, a meno di non assumere che Giovanni Francesco Barbieri - o chi per esso - non fosse nemmeno in grado di compitare un latino tanto elementare.
Per dar ragione della forzatura grammaticale, la prima idea che viene in mente è che risulti dal trattamento anagrammatico di un'altra frase che vi sarebbe nascosta: purtroppo, su questa via si sono gettati solo dilettanti appassionati di occultismo i quali - sulla base di un'ipotesi formulata per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln - credono che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia sopravvissuto alla crocefissione per morire poi di morte naturale e venir sepolto da qualche parte nel Sud della Francia. Come ci si poteva attendere, tale ipotesi è stata accolta dal pubblico profano con un entusiasmo direttamente proporzionale alla sua assurdità, dando luogo a una nutrita serie di volumi se possibile ancora più improbabili e scatenando nelle pacifiche campagne circostanti Rennes-le-Château una caccia al tesoro che - pur non avendo dato ovviamente alcun risultato - è ancor'oggi ben lontana dal cessare. Così la si è anagrammata come "I, TEGO ARCANA DEI" ("Vattene, custodisco i segreti di Dio"): naturalmente, che tale vaga allusione imprecatoria non riveli assolutamente nulla ma sia addirittura più enigmatica della frase da cui è ricavata - tanto da spingere a chiedersi quale sia l'utilità di nasconderla in un anagramma - non pone il minimo problema ai cercatori di tesori immaginari.
Tuttavia, vi è un'altra possibilità di decodifica - segnalataci dall'amico Vincenzo Franchini, ottimo latinista - che si rivela adeguata alla nostra ipotesi in modo davvero stupefacente:
ET IN ARCADIA EGO
è anche l'anagramma perfetto di
ARA IN TEGEA DICO
in cui l'ablativo "ara" è certamente da intendere come complemento di argomento, nel senso di "de ara", in cui il "de" - come avveniva quasi sempre in latino - è sottinteso. Il verbo "dico" non significa dunque "dedico" - se così fosse richiederebbe l'accusativo "aram" - bensì è da intendere nel senso di "narro, racconto". La frase "DICO (DE) ARA IN TEGEA" - tenuto conto del fatto che il termine "ara" designava comunemente anche il sepolcro - significa dunque esattamente: "NARRO DEL SEPOLCRO IN TEGEA", concordando alla perfezione con il brano di Erodoto che abbiamo supposto costituire il referente letterale del dipinto.
Anche i più scettici concorderanno sul fatto che le probabilità che un anagramma così letteralmente e semanticamente preciso sia casuale - e che dipenda esclusivamente dalla possibilità meccanica di permutazione delle lettere nella frase - sono praticamente nulle: perciò noi consideriamo questo come qualcosa di molto prossimo a una prova oggettiva del fatto che la nostra ipotesi corrisponda effettivamente all'intenzione del Guercino.
Franco Baldini
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