Sapevate che alla Columbia University di New York c’è un corso di Ignoranza? Lo tiene Stuart Firestein, che è anche professore di neuroscienze e direttore del Dipartimento di biologia.
Immaginare come funzioni un corso di Ignoranza porta a paradossi curiosi. Messa così non sembra una cosa seria. Invece lo è. Possiamo immaginare la conoscenza come un’isola che cresce in mezzo a un oceano che rappresenta l’ignoranza. All’inizio la scienza era un atollo piccolissimo, oggi è una grande isola divisa in varie regioni: fisica, chimica, biologia, informatica e così via. E si allarga sempre più rapidamente. Ma attenzione: con la stessa velocità si allunga la sua linea di costa. Cioè il confine con l’oceano dell’ignoranza. Dunque, osserva Firestein, il prodotto finale della conoscenza è l’ignoranza. Però, aggiunge, una «ignoranza informata», che si configura come nuove domande, che a loro volta produrranno risposte, cioè conoscenza, e quindi altra ignoranza.
Fin qui è tutto abbastanza normale. Socrate insegnò che la vera conoscenza è sapere di non sapere e il cardinale Nicola Cusano (1401-1464) parlava di «dotta ignoranza», intendendo che si può conoscere l’ignoto solo mettendolo in relazione con ciò che già si conosce, ma perché ciò avvenga, occorre avere qualche vaga conoscenza dell’ignoto; solo Dio possiede una conoscenza infinita.
È tuttavia necessario un passo ulteriore, e Stuart Firestein lo fa: al di là dell’ignoranza che sappiamo di avere perché è il confine con il conosciuto (la linea di costa dell’isola), bisogna sapere che può esistere qualcosa che ignoriamo di ignorare. È un po’ come se, dalla costa dell’isola, vedessimo soltanto oceano e oceano e oceano: ciò non significa che oltre l’orizzonte non ci siano altri continenti, cioè l’ignoto immerso nell’ignorato. Questa, se volete, è una «dotta ignoranza» di secondo livello. Una meta-ignoranza o, da un altro punto di vista, una meta-conoscenza.
Stuart Firestein, da buon americano, non si avventura in ragionamenti così sottili, tipici della nostra filosofia europea. Però coglie il centro del bersaglio: la scienza progredisce tanto più rapidamente quanto più gli scienziati prendono consapevolezza della loro ignoranza e – ancora meglio – del fatto che esiste una ignoranza che ignorano.
Oggi quasi tutti i ricercatori lavorano chiusi dentro le soffocanti pareti della specializzazione. Firestein ricorda che nel 2002 «sono stati archiviati nel mondo cinque esabyte di informazioni, cioè quanto basta a riempire la Biblioteca del Congresso Usa trentasettemila volte». Ma dal 2002 «questo dato è cresciuto di un milione di volte». Nessuno potrà mai dominare una tale massa di informazioni neppure nell’ambito della propria disciplina. Figuriamoci che cosa potrà sapere delle discipline altrui. Eppure le cose più interessanti (le scoperte) si fanno sulla frontiere tra scienze diverse. Una dotta ignoranza dovrebbe portare a questa consapevolezza. Se poi si vuole davvero scoprire qualcosa di rivoluzionario, serve la meta-ignoranza: sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare.
Da La Stampa del 24/06/2103 (Piero Bianucci)
Due righe a commento.
La sempre più crescente mole di informazioni e di dati possedute dall'uomo, rendono difficile l'approdo a una conoscenza totale del reale e della vita. Ma proprio questo dovrebbe spingere chi ricerca - e tutti dovremmo essere in ricerca - a maggiore umiltà, a maggiore apertura mentale. Sappiamo così poco di tutto, soprattutto di quanto non ci interessa o di cui non abbiamo conoscenza nemmeno indiretta, che prima di esprimere un parere positivo o negativo in merito a una proposta teorica, dovremmo avere l'onestà intellettuale di vagliare una bibliografia composita e ammettere la possibilità di stare sbagliando in ogni momento.
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